venerdì 27 aprile 2012

IL FENOMENO MORTE

tratto da LA VITA OLTRE LA VITA di Raymond A. Moody Jr.


Che cosa è la morte?
L'umanità si è posta sin dall'inizio questa domanda. E nel corso degli ultimi anni io ho avuto occasione di rivolgerla a pubblici ben definiti, che andavano da classi di studenti di psicologia, filosofia e sociologia, a organizzazioni ecclesiali, a pubblici televisivi, a club, associazioni mediche. 
Sulla base di queste mie esperienze posso dire che l'argomento suscita reazioni profonde in individui assai diversi per caratteristiche emotive e modi di vita.
E' tuttavia innegabile che per la gran maggioranza degli uomini parlare della morte è difficile. 

Lo è per almeno due ragioni. 
La prima, sostanzialmente psicologica e culturale: 
- la morte è un argomento tabù. Abbiamo la sensazione, forse soltanto a livello inconscio, che venire in contatto con la morte, per quanto indirettamente, ci costringa ad affrontare la prospettiva della nostra morte, avvicini la nostra morte, ce la renda più reale e percepibile.
(...)
Solo parlare della morte può sembrare un modo per avvicinarla indirettamente. Senza dubbio molti pensano che sia come evocarla mentalmente, avvicinarla tanto da dover affrontare l'inevitabilità della propria morte futura. Per evitarci un trauma psicologico, cerchiamo dunque di evitare quanto più possibile l'argomento.
- La seconda ragione è più complessa, poiché ha la sua radice nella natura stessa del linguaggio. Nella grande maggioranza dei casi, le parole del linguaggio umano si riferiscono a contenuti dei quali abbiamo esperienza attraverso i sensi. Ma la morte è di là dall'esperienza conscia di quasi tutti noi.

Se quindi vogliamo parlare della morte dobbiamo superare i tabù sociali e il radicato dilemma linguistico dovuto alla nostra inesperienza. E finiamo spesso per usare analogie eufemistiche.
Paragoniamo la morte e il morire a cose più piacevoli di cui abbiamo esperienza.

Il paragone più comune è forse quello con il sonno. Morire, ci diciamo, è come addormentarsi. L'analogia è frequente nel linguaggio e nel pensiero comune quanto nella letteratura di età e culture diverse. Era comune anche al tempo degli antichi greci.

Nell'Iliade, il sonno viene chiamato «fratello della morte», e Platone, nell'Apologia di Socrate, fa pronunciare le seguenti parole a Socrate, appena condannato a morte:

[Se dunque la morte non è che un sonno senza sogni] deve trattarsi di un meraviglioso beneficio. Se infatti si chiedesse a chiunque di ricordare la notte nella quale dormì tanto profondamente da non avere sogni e di paragonarla alle altre notti e ai giorni della sua vita, e di dire infine, dopo avervi a lungo riflettuto, quante notti e quanti giorni migliori e più felici di quella notte egli abbia conosciuto nel corso della sua esistenza, ebbene, io credo che ... [ognuno] troverebbe che sono assai pochi quei giorni e quelle notti. Se la morte è questo, io chiamo un beneficio la morte, poiché tutto il tempo, se lo si considera così, non è che una sola notte.
(...)

Una tradizione, forse più antica, afferma che una componente dell'essere umano sopravvive alla morte è alla distruzione del corpo, una componente alla quale sono stati dati molti nomi: psiche, anima, mente, spirito, ego, essere, consapevolezza. Quali che siano i nomi dati alla componente immortale dell'uomo, la nozione che con la morte fisica l'essere umano entra in un'altra dimensione dell'esistenza è tra le credenze umane più venerabili.


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